Inconvenienti di una professione non vocativa

Anni addietro svolgevo un’attività professionale nel settore amministrativo. La mia vita era accompagnata da un senso costante di insoddisfazione e di nausea, per altro facilmente spiegabile: il mio tempo era interamente occupato dalla soluzione di problemi contingenti, mentre la mia mente era sempre stata attirata da problemi universali. Anche la frequentazione dei colleghi non mi rendeva partecipe di una comunanza di interessi, a cui rimanevo profondamente estraneo.

Diverse erano le difficoltà che il mio senso critico sollevava:

  • la materia che studiavo era quotidianamente mutevole, per cui era necessario abbandonare presto le cognizioni apprese per occuparsi delle novità;
  • i problemi professionali non riguardavano la legge in generale, ma piuttosto l’aspetto burocratico, ossia patologico della legge stessa;
  • un ottimo legislatore avrebbe contribuito a sopprimere la nostra attività, che resisteva e prosperava grazie a complicazioni per lo più inutili;
  • le scadenze impellenti rendevano inadeguati i tempi di studio, per cui non era concessa nemmeno la soddisfazione di un lavoro ben fatto;
  • il risultato del servizio che svolgevo era invisibile, emergendo solo in senso negativo, da una imperfezione o da un errore;
  • in generale avvertivo la sproporzione qualitativa tra la facoltà razionale impiegata e l’oggetto dello studio, che mi appariva indegno di tanti sforzi.

Forse, riflettevo, ogni tipo di lavoro presentava analoghi inconvenienti e l’errore, la disarmonia erano in me stesso, individuo inadatto allo sforzo e quindi alla vita. Non volendo rassegnarmi a convivere con un simile stato di cose, pensai di migliorarlo introcendo un aspetto ludico che alleviasse il lavoro. Siccome era palese il mio interesse per problematiche diverse da quelle fiscali, mi venne in mente di catalogare il comportamento dei clienti in chiave psicologica. Dall’introduzione di questa nuova abitudine, che poi divenne sistematica, il mio umore ebbe un miglioramento, dovuto sicuramente alla componente creativa che si affiancava a mansioni ripetitive, ma c’era di più: avevo l’impressione di aver ritrovato una vecchia vocazione, che si ripresentava prepotentemente dopo anni di oblio.

Severo giudice di me stesso, come attribuivo la mia idiosincrasia per il mestiere alla pigrizia, così non esitai ad accusarmi di un’altra colpa o vizio: la vanità. Infatti alla elencazione degli aspetti negativi della professione ne andava aggiunto un altro:

  • il tributarista, per bravo che sia, per la natura stessa del suo lavoro non ha alcuna speranza di essere ricordato dai posteri.

Fatta salva l’eccezione di pochi conferenzieri di fama nazionale, che del resto svolgevano un lavoro diverso dal mio, non era davvero un mestiere per persone alla ricerca di un facile applauso. Sotto questo aspetto esistevano un’infinità di professioni più remunerative: dall’attore, al cantante, al pittore, all’acrobata di circo, al calciatore e via discorrendo. Ognuna di queste professioni richiedeva talento e parimenti soffriva, almeno nell’ambiente borghese in cui vivevo, del pregiudizio di scarsa serietà. O meglio il giudizio comune era più sottile e ambiguo: per un verso soltanto un grande talento e un grande successo potevano esorcizzare la frivolezza di questi lavori; per l’altro la serietà veniva imposta e pretesa dal mediocre come compensazione naturale alla mancanza di talento. Sembrava che la società affermasse: non hai testa, devi avere gambe; col sottinteso che l’esistenza dei possessori di gambe era posta unicamente in funzione degli autentici portatori di testa.

Progressivamente incominciai a trasferire alla nozione di serietà quell’ irritazione che provavo verso me stesso. Avevo sopravvalutato l’importanza di quella virtù e senz’altro l’avevo usata in modo distorto, applicandolo al genere anziché alle modalità; in verità non esistevano lavori frivoli, ma era assolutamente frivola, ossia superficiale, l’ostinazione a non riconoscere come imperativa la vocazione, quando la stessa opinione che ironizzava sulla professione di una ballerina non aveva nulla da eccepire sull’attività dell’artigiano che ne produceva i costumi. Ragionando in tal modo mi resi conto che unicamente in base a un pregiudizio del senso comune, per di più contraddittorio, stavo spendendo malamente metà della vita per non aver voluto verificare a fondo le mie inclinazioni. Per aver scelto la mia occupazione, e prima ancora gli studi, soltanto in base alla situazione familiare, avevo tralasciato di conoscere le mie effettive potenzialità e forse era già troppo tardi per farlo.