Teoria delle vocazioni

La ricerca della verità come rimedio all’angoscia è un tema fondamentale nel discorso di E. Severino, all’interno del quale posso aggiungere qualche riflessione dettata dall’esperienza personale:

  • il rimedio filosofico non riguarda l’intero universo della popolazione, ma solo i potenziali filosofi ;
  • la nausea esistenziale unita all’inquietudine accompagnano chi (anche non filosofo) svolga senza predisposizione un’attività professionale;
  • lo stato di angoscia cresce con l’intensità e la rilevanza dell’impegno assunto senza averne attitudine;
  • il rimedio offerto dalla natura è più vario di quello filosofico, essendo svariate le vocazioni. Tuttavia appare più efficace laddove è più accentuato l’aspetto vocazionale (sacerdote, medico, artista, etc.);
  • esistono altrettanti tipi di angoscia, quante sono le vocazioni inappagate;
  • il fatto che alcuni idealtipi rimangano identici nel tempo fa supporre che la stratificazione dei progetti umani sia molto antica;
  • se si collega, come avviene nel mio sistema, l’attività individuale a un disegno della natura, bisogna ammettere che la diversità di attitudini corrisponda a una diversità di mansioni, coordinate in vista di un fine e presenti in embrione fin dall’origine dell’uomo e tramandate attaverso le generazioni nel corredo genetico dell’umanità;
  • sempre nell’ipotesi di natura provvida e razionale, posso supporre che il prevalere di un’unica componente o in altri termini l’assegnazione di un unico compito socialmente rilevante sia collegato alla durata limitata della vita umana;
  • all’interno di qualunque popolazione umana deve esistere una varietà attitudinale; probabilmente le civiltà più evolute (complesse) aumentano le possibilità di esprimere l’attitudine, ma non sempre ne facilitano il riconoscimento;
  • le vocazioni non corrispondono esattamente alle professioni, che sembrano più numerose; sarebbe utile, ma non è facile farne un elenco completo;
  • spesso l’ apatia o la mancanza di interessi di un individuo indicano soltanto la mancata rivelazione delle sue potenzialità;
  • non esiste vocazione per attività, come il crimine, che comportano ostacolo, danno o arretramento dei progetti concorrenti.

Dopo aver deciso che la ricerca filosofica doveva prevalere sugli interessi letterari, che gli scritti mi erano indispensabili non per la divulgazione, ma per fini autodidattici, dovevo stabilire se mi era indispensabile lo studio sistematico della storia della filosofia.

All’inizio usai l’espediente di verificare quali risultati avrebbe attinto nella ricerca speculativa il semplice senso comune, ma una volta soddisfatta questa curiosità, mi convinsi che un livello minimo di elementi culturali specifici andava assolutamente posseduto, anche nell’ipotesi di volervi per qualche motivo rinunciare, e che l’unico modo per conseguirlo era lo studio sistematico sotto la guida di un maestro; prassi che seguo tuttora e che proseguirò negli anni venturi.

Dopo aver delineato la teoria dei caratteri dominanti e tracciato per sommi capi quella delle vocazioni, acquistava importanza per la mia analisi il problema della libertà. In attesa di sintetizzare le autorevoli opinioni sul libero arbitrio, prendevo nota di due vincoli posti alla facoltà decisionale, di cui mi ero reso conto personalmente: uno era dato dalla impossibilità di cercare la felicità con modalità diverse da quelle previste dal carattere dominante, l’altro dal richiamo della vocazione e della infelicità conseguente al suo rifiuto. Queste due restrizioni alla libertà di scelta andavano ad aggiungersi a molte altre: mi veniva in mente l’immagine antica di un animale da soma a cui venissero imposti successivamente uno, due, tre e più gioghi.

Avrei potuto procedere nello studio degli autori in modo cronologico, oppure per problemi. Scegliendo questa seconda strada, mi sarei imbattuto in una difficoltà: non avrei potuto cominciare dall’etica, se prima, affrontando l’ontologia, non avessi incluso o escluso la presenza di Dio, sommo bene e creatore; d’altra parte nulla avrei potuto dire sulla natura del sommo bene senza prima chiarire, attraverso l’etica, l’idea del bene. La soluzione migliore mi sembrava quella di lasciare aperte tutte le ipotesi ontologiche che la mia analisi riusciva a prospettare, cercando di elaborare un’etica aperta alle varie possibilità e con esse compatibile. Ero fermamente convinto che occorresse evitare e respingere ogni promiscuità dei due piani, facendo coincidere il bene con l’esistente e riducendo il male a non essere ontologico. Contemporaneamente, collegandomi alla teoria delle vocazioni, potevo tentare una definizione puramente etica del male attraverso un’analisi dei vizi capitali della tradizione cristiana, in seguito arricchiti da altri elementi. La ricerca evidenziò aspetti di ambivalenza di ogni peccato con il suo opposto, che non senza perplessità poteva essere definito virtù. La mia teoria delle vocazioni ben si concilia tuttoggi con l’etica aristotelica del giusto mezzo; la strada del progetto individuale deve passare attraverso le tentazioni dei vizi-virtù, tenendosene discosta nella misura richiesta dal compito individuale assegnato; per ogni individuo esiste cioè un percorso etico ottimale in vista dell’autorealizzazione.

Dalla riflessione emergevano altri gradi di asservimento della volontà umana costituiti dalla forza delle pulsioni e degli appetiti; si imponeva anche una suggestiva ipotesi di male come ciò che giova al progetto individuale e di bene come suo contrario.

Le questioni erano tante e tutte collegate. Come chiamre altrimenti la mia passione per la filosofia se non desiderio di attribuire alle azioni un significato? E che significato dare al significato stesso, se non di risposta appagante alla mia inquietudine? La filosofia dopo secoli non aveva dato risposte incontrovertibili, ossia, secondo il comune pregiudizio, era venuta meno al suo scopo. Invece la scienza continuava, attraverso l’applicazione tecnologica, a mietere discutibili successi, a causa dei quali aumentava la sensazione di asservimento del genere umano a una pura volontà di potenza, contro la quale ogni forma di umanesimo appariva inefficace.

Che cosa aveva impedito alla filosofia di diventare episteme? Se dopo Nietzsche non era stato additato nessun nuovo orizzonte di conoscenze stabili, erano però emerse le cause evidenti del fallimento, due delle quali assolutamente ovvie: la vita dell’uomo è troppo breve e il suo patrimonio di conoscenze troppo esiguo.

Significativa mi sembra in proposito una frase di Conrad Lorenz:

…l’uomo è soltanto un effimero anello della catena delle forme viventi. Ci sono buone ragioni per pensare che egli sia soltanto un gradino nella scala che porterà a un essere realmente umano.