Filosofia, utilità e vocazione

Laddove la filosofia, unica forma di studio autorizzata dalla ragione a pronunciarsi sull’utilità di uno studio, proclama la propria inutilità, contestualmente e a maggior ragione  proclama l’inutilità di qualsiasi studio. Studio ( impegno, disciplina, materia, tecnica, attività) utile è per ipotesi quello adatto a realizzare uno scopo a sua volta indiscutibilmente utile. Ogni tentativo di collocare intuitivamente questo scopo nell’ambito della salvezza materiale, o di identificarlo con essa, urta contro la mancanza di senso, che fa giudicare insoddisfacente e quindi insufficiente la salvezza materiale, sia pure unita al benessere, fine a se stessa. In modo simile ogni tentativo di attribuire senso ultimo alla salvezza materiale, trasformandola o interpretandola come felicità, urta contro la convinzione, tipica del mondo contemporaneo, che non vi siano verità definitive. Infatti tale convinzione determina l’ulteriore convinzione che non esista un concetto di felicità universalmente condiviso.

Il concetto di felicità, che emerge spontaneamente dagli altri concetti richiamati, si sovrappone a un concetto di fine ultimo, che, pur in mancanza di intrinseca universalità, viene in tal modo riconosciuto come universalmente utile e viene meglio precisato come raggiungimento o conseguimento (teorico) di tutte le felicità individuali. La via da percorrere verso questa meta non è quella del ragionamento, che può indicare solo la giusta direzione, ma quella dell’esperienza diretta. In tal modo l’uomo si rende conto di essere felice, senza bisogno di argomentazioni, quando realizza e vive una forma di  lavoro che non lo rimanda a ulteriori e più attraenti situazioni.

Questi ragionamenti mi inducono ad affermare che se l’esercizio dell’attività giusta (vocazionale) rappresenta il massimo traguardo filosofico, l’uomo privilegiato che ne gode può definirsi fondatamente filosofo