Sviluppo e capisaldi del mio pensiero


FELICITA’ E VOCAZIONE

Interessato al problema della felicità, rileggo casualmente l’ode di Orazio Flacco (edonista) a Mecenate. Riflettendo su questo testo arrivo a persuadermi della centralità della vocazione nella vita umana: può essere felice solo chi vive assecondando la propria vocazione.


FILOSOFIA

Nella mia attitudine a porre domande generali e nel mio scarso interesse per i problemi contingenti, credo di riconoscere una precisa vocazione all’attività filosofica, intesa come tentativo di rimuovere questo particolare tipo di inquietudine. A tale scopo ha più importanza l’attività di studio in sé, che non la portata e il valore dei risultati.


DIFESA

Pur rendendomi conto della mia inadeguatezza culturale, mi vedo costretto a difendere davanti al prossimo la mia scelta e, indirettamente, la filosofia. Di fronte alla domanda: a che serve la filosofia?, trovo adeguato un atteggiamento intransigente e epistemico: a che serve tutto il resto? Ciò che non significa, non serve; solo la filosofia, per definizione, può pronunciarsi sul significato.


OLTREUOMO

Sulla base del senso comune, attribuisco la potenza della vocazione individuale a un Deus sive natura, che si manifesta tramite l’istinto di conservazione. Dopo varie riflessioni, concludo che tale forza insita nella natura mira a raggiungere la tappa futura dell’evoluzione (oltreuomo) attraverso il coordinamento spontaneo delle vocazioni individuali. Al coordiamento spontaneo dato dalle varietà delle attitudini, si aggiunge l’operato di sovrastrutture di origine umana, come le istituzioni politiche e il mercato, che sembrano operare nello stesso senso (di produzione dell’oltreuomo).


DIO

Influenzato dalla forte valenza teologica delle precedenti riflessioni, immagino che un Dio situato al di fuori dell’esistere o semplicemente al di fuori dell’universo, dia l’incarico all’uomo di crearlo, rendendolo partecipe dell’esistere nello spazio-tempo. Ugualmente suggestiva e forse preferibile alla precedente mi sembra un’ipotesi panteista, secondo la quale l’Assoluto, nel realizzare l’onniscienza attraverso infinite manifestazioni, sperimentazioni e autoproduzioni, percorra ogni tappa dell’evoluzione attingendo a sempre più intensi livelli di autocoscenza.


DETERMINISMO

Nel prospettare ipotesi teologiche nascenti peraltro da considerazioni antropologiche non posso trascurare il terreno o presupposto ontologico in cui dette ipotesi dovrebbero situarsi. Accettando l’antico postulato eleatico che nulla può nascere dal nulla (e sospendendo quindi il giudizio sull’evidenza del divenire), mi convinco che l’io individuale, animato da sentimento e convincimento di libertà, svolga una modalità di esistenza consistente semplicenemente nel disvelare a se stesso un serie di eventi concatenati necessariamente e non modificabili. La sostanziale negazione del libero arbitrio mi porta a conseguenze pesanti per quanto riguarda il concetto di responsabilità, che diventa convenzionale.


VIZI E VIRTU’

Nell’ipotesi che l’immagine di Dio così delineata corrisponda al concetto tradizionale del Sommo Bene, svolgo un’analisi dei concetti di male e di bene, dei vizi e delle virtù, partendo dalla dottrina cristiana. Per negationem mi convinco che il male consiste nell’ostacolare slealmente (contro le regole istituzionali) le vocazioni concorrenti, il bene nel neminem laedere. I miei argomenti a favore del determinismo (scritto B) si fondano sul sentimento di lacerazione della coscienza e sulla costante percezione di debolazza della volontà.


ALTRUISMO E TOLLERANZA

Sviluppando una concezione metonimica anziché ecumenica dell’altruismo, credo di sintetizzare le contrastanti pulsioni pulsioni verso l’ego e verso l’altro. In tal modo sono costretto a mettere in discussione il concetto di tolleranza, che appare decisivo nel mondo contemporaneo. Due tolleranze (caso A) si elidono, nel senso che, non avendo nulla da sopportare, diventano superflue l’una all’altra. Due intolleranze (caso B) necessariamente vengono in conflitto fino a raggiungere un momento di equilibrio, nel quale, diventando tolleranze, ricadono nel caso A. Una tolleranza opposta a un intolleranza (caso C) arriva al limite in cui si trasforma in intolleranza, ricadendo nel caso B. La tolleranza ha dunque bisogno, per sussistere, del rapporto dialettico con l’intolleranza, che è ovviamente sgradita alle istituzioni. Altri concetti, come quello di efficienza non presentano invece questa limitazione.


CONSEGUENZE POLITICHE

La realizzazione dell’oltreuomo sembra facilitata in un quadro di governo planetario, che emerge dall’analisi delle tendenze in atto più ancora che dalla proiezione del mio orizzonte utopistico. Se la realizzazione di una società a cultura multietnica sia strumento idoneo a tale scopo è tema da approfondire. In ogni caso la democrazia intesa come controllo dei poteri forti e come garanzia di accesso dei deboli alle classi di reddito medio sembra preferibile anche strategicamente al darwinismo sociale. Per non intralciare le vocazioni individuali la politica si deve limitare a migliorare le condizioni materiali, senza pretendere di imporre stili di vita.


IPOTESI DA SVILUPPARE

Posto che, senza eccezioni, tutte le attività vocazionali siano incanalate (da Dio?) verso la produzione dell’oltreuomo, mi riprometto di effettuare una verifica storica di come anche la vocazione filosofica abbia sempre contribuito a tale scopo, attraverso il miglioramento, in tempi lunghi, del senso comune. Mi attira inoltre una rilettura storica dei conflitti di classe secondo l’ipotesi della variazione nel fattore discriminante: l’aretè, intesa come abilità fisica, nelle epoche eroiche, poi la nuova aretè, virtù morale, durante il primo cristianesimo, poi il privilegio di nascita, dal Medioevo al Settecento, poi il denaro nell’epoca del capitalismo. Infine nel mondo contemporaneo il trionfo della visibilità, intesa come accesso alla televisione e alle reti informatiche. Per il futuro immagino, e forse auspico per vedere confermate le mie teorie, un ritorno all’aretè, fattore discriminante originario.