Manifestarsi della vocazione

La pubblicazione di un mio saggio su questo argomento, mi convinse che esistevano premesse per abbandonare una professione sbagliata e abbracciare la vocazione. Ma quale vocazione? Scrittore, filosofo, psicologo? Pensai che un nuovo errore grave non sarebbe stato possibile, perché la scelta era ristretta tra attività affini, le cui esperienze erano utili e facilmente trasferibili dall’una all’altra. In questo momento sarei più rigoroso nell’applicare il criterio dell’elogio o del consenso, tratto dall’ode di Orazio a Mecenate: l’individuo non aspira alla lode in generale, ma a quella che gli deriva dall’attività che gli appartiene per vocazione. Quest’ultima può anche non identificarsi col talento, che riguarda il risultato dell’opera , ma non la felicità e l’infelicità: l’uomo di talento, al pari dell’uomo che ne è privo si sente inquieto e insoddisfatto se non risponde al richiamo che gli impone di svolgere una mansione specifica, in genere riconosciuta dalle istituzioni. Rispetto al talento la vocazione appare più personale e irrinunciabile, essendo l’uno rappresentato benissimo dalla metafora del dono, l’altra dalla missione: la stessa entità o divinità che ha donato il talento non vuole dunque essere ripagata da tutti i beneficati con la stessa moneta.

Seguendo questa impostazione, che si limita a prendere atto delle prime evidenze (la chiamata, l’infelicità che deriva dalla disobbedienza) si arriva necessariamente a concepire una natura non solo orientata a un fine, ma sotto un certo aspetto anche provvida, dato che guida l’uomo verso la strada che lo rende felice. Ma il sospetto è che la felicità umana non sia il fine principale. Di fronte alla vastità, complessità, antichità dell’universo e alla meraviglia che esso desta, il senso comune rifiuta di accettare l’ipotesi che un simile apparato esista solo in funzione di una felicità caduca. Se si pensa secondo simmetria e proporzione, appare più suggestivo invertire l’ipotesi: la felicità individuale, inscindibile dall’attività secondo natura che la rende possibile, è solo una delle infinite componenti che partecipano del tutto, in vista di qualche altro fine.

A questo punto dell’analisi, avevo chiaro di fronte a me stesso che la mia attrazione per i quesiti fondamentali non era un pretesto creato dalla pigrizia o dalla vanità. Se in cuor mio avessi desiderato davvero il facile consenso, avrei usato strumenti con più immediato accesso al pubblico e più aperti ad esso. Dato che l’istinto vocazionale mi suggeriva invece la riflessione isolata, allora il movente autentico era il desiderio di conoscenza, sicuramente lodevole anche secondo il pensiero di Dante appreso al liceo.

Cessati gli impegni professionali, non ero ancora sicuro della esattezza della strada intrapresa, ma lo ero della qualità pessima di tutto ciò che lasciavo. Una volta stabilito un ritmo regolare di lavoro, presi atto che la nuova vita si presentava più piena e più soddisfacente; se non che, come tutti coloro che, essendosi persi, in età matura decidono di cambiare strada, per un po’ credetti possibile trovare una facilitazione di percorso, che nel mio caso avrebbe potuto consistere nel dilettantismo. Chissà perché, trincerandomi dietro questo nobile paravento, ero sicuro che mi sarebbero arrivati aiuti morali, incoraggiamenti, comprensione per gli errori, ammirazione per i risultati raggiunti. Ogni mio scritto, permeato di doverosa modestia, lasciava trasparire l’ambiguità della mia situazione: non ero in realtà nemmeno un dilettante autentico, il quale non si occupa in modo esclusivo della materia del diletto, ma si dedica a una diversa attività principale. L’opinione del prossimo sotto questo aspetto non è indulgente: il cambiamento di vita, che soltanto pochi mettono in atto, per essere ammesso e giustificato dalla collettività, deve essere coraggioso, radicale e mostrare una dedizione assoluta: il tempo va impiegato interamente nella vocazione, altrimenti la vocazione diventa un passatempo. E tale ero io agli occhi degli altri: un buontempone che aveva trovato come passare il tempo.

Avevo esercitato per anni senza passione una professione legittima, ora l’ordinamento non mi riconosceva né come dilettante, né come professionista. D’altra parte avevo davvero bisogno di riconoscimenti? Il richiamo attitudinale era sembrato provenire da una voce esterna e superiore, che risuonava all’interno dell’anima più amica e più autorevole di qualunque organizzazione della società. Non era quindi la perdita di appartenenza a crearmi nuove inquietudini, ma il fatto nuovo dell’affidamento della mia vita alla vocazione: ora essa non si limitava a indicare la strada, ma, lasciando intravvedere futuri traguardi, sembrava pretendere da subito impegno e risultati; non era, sotto metafora, un semplice messaggero, ma sembrava piuttosto un tenace cane da pastore. Insofferente com’ero a ogni vincolo, incominciai a conoscere la sottile ambivalenza della libertà: da un lato accettavo di servire un nuovo padrone, dall’altro rendevo meno onerosa la scelta restringendone il campo. Solo nei dettagli il mio caso appariva incerto: dovevo impegnarmi nel divulgare le mie idee attraverso gli scritti o limitarmi ad un’attenta lettura? In entrambi i casi e sotto entrambi gli aspetti occorreva individuare obiettivi e reperire strumenti adeguati.

Se avessi seguito la mia vena narrativa, non avrei potuto ignorare i gusti del pubblico e la sua risposta ; se invece il mio obiettivo autentico era lo studio della filosofia, la stesura di testi sarebbe stata comunque utile, ma a me stesso più che ai lettori. Nella scelta tra letteratura e filosofia il criterio del maggior piacere non era applicabile al mio caso, dato che provavo identica passione nello scrivere un saggio o un racconto; invece ritornava utile la discriminante della serietà: quale delle due discipline era la più edificante? Quale, secondo un linguaggio antico, la più elevata? Allora ero molto incerto, ora mi sento più consapevole. Se l’intrattenimento letterario è, come sospetto, uno dei più efficaci strumenti per far del bene, più dell’elargizione di denaro e delle opere caritatevoli, tuttavia non risponde alle domande fondamentali che stanno alla base della mia metamorfosi; oggi so bene che per essere coerente devo dare alla filosofia priorità assoluta e forse esclusiva. Infatti, praticando qualsiasi altra disciplina, mi imbatterei nello stesso vecchio problema creato da un oggetto di studio particolare e contingente.