Interesse comune

Alcuni moralisti si rifanno spesso alla nozione di interesse comune, sottointendendo la sua importanza fondamentale per raggiungere obiettivi etico-politici,  ma non si curano di definirla e nemmeno di distinguerla dal più ampio concetto di bene. Questa trascuratezza  fa pensare che non esistano testi adeguati sull’argomento (ne esistono molti sul  bene), oppure addirittura che esista una precisa volontà di lasciare la questione non chiarita.

Questo mio tentativo di approfondimento  risente del carattere estemporaneo e forse dilettantistico di tutti i miei studi. Non organizzo infatti le mie ricerche in modo accademico, elaborando il contenuto di testi, ma, data importanza centrale che affido al concetto di senso comune, considerato in modo forte come cultura storicizzata, lo utilizzo al tempo stesso come strumento critico e come oggetto di interpretazione. Poiché, procedendo in tal modo, una parte del s.c. non regge alle proprie critiche, correggendo sistematicamente le storture evidenti, posso arrivare a risultati che superano in chiarezza il materiale dossico da cui provengono, senza però allontanarsene troppo.

Entrando subito in argomento, dirò che il concetto in esame, richiamando una molteplicità, rimanda  immediatamente a concetti più semplici. La sua scomposizione sembra configurare quattro possibilità esclusive:

  • L’i.c. coincide con la sommatoria degli interessi individuali della collettività considerata.
  • L’i.c. comprende tale sommatoria, ma include altri fattori.
  • L’i.c. è composto partendo dalla citata sommatoria, a cui vengono sottratti alcuni fattori.
  • L’i.c. non è in alcun modo riconducibile all’interesse individuale.

Tutte e quattro le possibilità richiedono preliminarmente la definizione di interesse individuale, che, date le premesse poste,  si può formulare partendo da nozioni elemetari di economia, considerando l’individuo come centro di bisogni. Attraverso questo percorso, che sembra il più breve, si pone però il problema di definire l’interesse individuale; il che non è facile e richiede ulteriori semplificazioni. Ad esempio il soggetto teorico può essere ipotizzato come aspirante alla massima felicità e quest’ultima va intesa come massima (oppure ottima) soddisfazione di bisogni. Sullo sfondo va posto un contesto collettivo e istituzionale molto semplificato, concepito come interamente preoccupato di realizzare i fini ultimi della comunità e non distolto da altri fattori .

Diversamente, e  meglio di così, la definizione  può esser formulata in modo tale da adattarsi  ad ogni tipo di collettività ipotizzabile (laica, etica, teocratica, democratica, pluralista, etc.).

Scegliendo questa seconda alternativa,  l’i.i. viene a coincidere col grado massimo (oppure ottimo) di soddisfazione dei seguenti ordini di bisogni:

  • sopravvivenza e sussistenza
  • dignità
  • liibertà

Volutamente mi soffermo sui bisogni, accennando solo ai diritti e doveri che ne scaturiscono, con le seguenti precisazioni:

Un regime può imporre alla collettività forti limiti al bisogno di sopravvivenza e sussistenza, ma non mai totalmente prescindere da esso, in quanto andrebbe in tal caso a urtare contro il più condiviso dei sentimenti. Si immagini un regime che dichiarasse una guerra esterna col preciso intento di essere sconfitto o di riportare il massimo di perdite, oppure un regime che cercasse di diffondere le malattie e l’indigenza. Prescindendo dal sentimento di orrore che suscitano tali ipotesi estreme, delle quali per altro, come per ogni genere di follia, si trovano esempi attuati nella storia, è facile verificare che una teorica rinuncia alla sopravvivenza non trova nessuna giustificazione nemmeno dal punto di vista logico, perché, fondandosi sullo scopo di affrettare la propria fine, tende a  negare la stessa natura del regime o ordinamento che la sostiene, il quale si presenta come un non-regime. Occorre dunque che ad almeno un membro della collettività venga riconosciuto tale bisogno e il corrispondente  diritto.

  • Dignità.

Il bisogno di dignità, come parte distinguibile dell’interesse individuale, si configura con evidenza attraverso il mezzo che serve a soddisfarlo, cioè il lavoro. Il fatto che esistano da secoli organizzazioni e corporazioni, finalizzate non solo a salvaguardare i diritti economici di categoria, ma anche la qualità e il livello della prestazione,  se da un lato richiama la salvaguardia del fruitore, dall’altro è testimonianza storica di un istinto insopprimibile, di una tendenza forse non esclusiva, ma eminente della specie umana, a mettere in risalto una specifica abilità o qualità individuale. Il bisogno di dignità si rivela nella pretesa che l’intera collettività, attraverso le istituzioni che la rappresentano, riconosca il contributo personale al lavoro (ancorchè svolto in forma associata) come socialmente rilevante. Tale rilevanza appare evidente laddove esistono fruitori disposti  a pagare un compenso, più controversa in altri casi. A beneficio della chiarezza si può comunque ipotizzare che la parte del guadagno del lavoratore (relativo a  prestazioni specifiche) che eccede il bisogno di sussistenza, vada a fronte del bisogno di dignità. Il diritto che corrisponde al bisogno di dignità è ovviamente il diritto al lavoro.

  • Libertà.

Per definire il bisogno di libertà seguo un’opinione autorevole (A.Gehlen, U.Galimberti) che tende a considerare la riflessione (e perciò la attribuzione di significati) come retroattiva rispetto all’azione.  Se si può mettere in discussione il concetto di libertà, come nelle concezioni deterministiche, non si può negare come fatto umano l’istinto o attitudine all’attività ludica e l’intuizione evidente che la considera mai del tutto non fine a se stessa, ma volta al soddisfacimento di un bisogno. La parola gioco non rimanda immediatamente al concetto di  libertà, ma piuttosto a quello di creatività, che però vi è strettamente connesso. Il gioco è creatività libera nell’ambito di regole spontaneamente accettate e si distingue chiaramente dal lavoro per la diversità dello scopo, che nel gioco non è direttamente connesso alla sussitenza, ma liberamente posto dai partecipanti. Il mutare o venir meno dell’obiettivo finale, muta la natura dell’attività ludica, trasformandola in economica. Dallo stesso  discorso emerge anche il più stretto legame dei bisogni primari con il lavoro, rispetto al gioco (e dunque il più stretto legame del lavoro con la dignità, che non con la alla libertà). Il rapporto della libertà con i bisogni primari è meglio richiamato dal concetto affine al gioco (ma non identico) di divertimento, che richiama al s. c. non tanto un’attività creativa , quanto la soddisfazione di un piacere. Basta però evocare l’ossimoro di un divertimento obbligatorio per mettere in luce la natura libera e spontanea dei relativi bisogni  (da soddisfare con il divertimento).

La distinzione dei tre aspetti (tipi fondamentali di bisogno) emerge facilmente e con evidenza sia nei casi di lavori normali a larga diffusione, sia nei casi meno frequenti di attività con aspetti promiscui di lavoro-divertimento, dove il secondo tipo di bisogno (dignità)  sembra tendenzialmente in antagonismo con il terzo (libertà). Così, positivamente, posso lavorare per pura necessità di sopravvivenza e però pretendere che il mio lavoro, rivelandosi utile, sia anche riconosciuto come dignitoso. Negativamente, provo disagio se svolgo un lavoro assolutamente inutile, che mi faccia sentire (davanti a me stesso) o considerare (da altri) una specie di assistito in forma indiretta o surrettizia. In altri casi, se pretendo che gli aspetti ludici della mai attività diventino sostanziali, attribuendo loro priorità o prevalenza rispetto all’utilità, rinucio automaticamente a parte della mia dignità sociale . Anche la situazione dell’artista, che sembra la più complessa, non sembra presentare difficoltà insormontabili e anzi serve a chirire le idee correnti su questo tema. Nel momento della produzione egli, a differenza dell’artigiano, segue la libera ispirazione e non guarda alle richieste del mercato, che dovrebbero legittimare l’utilità sociale dell’opera.  Solo se esiste in seguito il momento della commercializzazione (spesso affidato ad altri), l’artista diventa anche professionista.

Avendo così per sommi capi definito i bisogni che entrano nell’interesse individuale, prima di esaminare le quattro ipotesi di interesse comune ritenute possibili, devo precisare il concetto di comunità, chiedendomi se tale definizione segua o preceda  quella dell’i.c. Non è neppure così scontato il soggetto a cui il senso comune  riferisce l’interesse individuale, definito sopra come il complesso dei tre bisogni fondamentali (sussistenza, dignità, libertà); rimane cioè l’incertezza sull’inclusione di individui i cui interessi e bisogni non sembrino in alcun modo richiamare dal punto di vista qualitativo quelli da me evidenziati sulla base dell’esperienza. Se comunque l’interesse individuale deve comprendere  soggetti che, facendo prevalere il punto di vista occidentale, chiameremo normali , cioè caratterizzati   da tutte e tre le componenti, a maggior ragione, e per la spontaneità che vuole il complesso comprendere il semplice, e il tutto le parti, l’inclusione si estende a individui i cui bisogni si riducano a due o a una sola categoria. Si pensi al caso limite del martire che in nome della dignità (pubblico riconoscimento del suo ideale ) è pronto a  rinunciare sia alla libertà , che alla vita.  Escludendo dalla nozione di individuo una persona priva di bisogni, che non è difficile immaginare senza vita, non quindi soggetto, ma semmai oggetto di interessi altrui, rimane da esaminare la possibilità di bisogni non riconducibili alle tre categorie assunte in ipotesi come esaustive. E’ facile verificare che ogni sforzo di fantasia in tal senso tende a chiamare in causa il divino o il superumano, più che l’umano. Ho volutamente tralasciato la possibile distinzione tra bisogni materiali e spirituali, perché la ritengo non solo inutile, ma fuorviante  ed errata; per coerenza con le mie convinzioni (esposte altrove) e con quelle ben più autorevoli di B. Spinoza, che seguo e condivido, posso affermare che ogni bisogno non riducibile a un corpo dotato di mente, oppure a una mente dotata di corpo, riguardi un’entità concettuale o trascendentale, non la specie umana. In ogni caso non è di puro spirito o di sostanze immateriali che si occupa il senso comune quando parla di interesse.

Quanto alla definizione di comunità, non vedo come essa possa concepirsi in assenza di interessi individuali prima ancora che collettivi. Infatti una tale comunità dovrebbe nascere: per uno scopo posto da qualcuno fuori di essa , oppure da qualcuno appartenente alla comunità stessa. Nel primo caso ogni ipotesi ricadrebbe fuori dalla normalità, cioè nella mitologia o nella metafisica. Nel secondo caso il fondatore, o i fondatori, per pretendere di rappresentare legittimamente una volontà comune, dovrebbero possedere o aver posseduto:

  • doti divinatorie o telepatiche atte ad interpretare i bisogni di ciascun membro della comunità;
  • capacità di persuasione sviluppate ad un livello tale da annullare qualsiasi interferenza dei soggetti-assoggettati nelle proprie decisioni

Dovrebbe trattarsi di creature mitologiche, estranee al  senso comune e poste a capo di una pluralità di automi; perfettamente conforme alla normalità appare invece l’ipotesi che all’origine della comunità vi sia una pluralità di bisogni individuali in origine soltanto  primari, che trovano nell’associazione (per la caccia,  la pastorizia, l’agricoltura) facilitazioni al loro soddisfacimento. Nella pretesa dei condottieri o promotori di rappresentare o addirittura di identificarsi con la volontà comune non è difficile riconoscere un mezzo per rafforzare la propria autorità, attraverso un rituale di spersonalizzazione, che genera rispetto e sacralità. Come il sacerdote-stregone acquista autorità dal parlare non in nome proprio, ma in nome di entità più forti di lui  (Dio, gli dei, gli spiriti), così colui che comanda acquista potenza dal farsi voce e volontà di una totalità delle forze.

Il sentimento comunitario, come condivisione di valori e mentalità, quasi un modo di pensare all’unissono, può concepirsi  in fase matura non all’origine della collettività, ma successivamente, quando si è gia creato un patrimonio di rituali, di  memorie, di simboli  (tradizione, cultura) idoneo a creare una tale sincronia. In questo frattempo esistono interessi individuali (quello del capo, quello del sacerdote) e  quelli spesso non coincidenti dei membri gerarchicamente inferiori, che affidano alla comunità la propria sopravvivenza. I conflitti della specie umana e di molte specie animali costituiscono per il s. c. prova empirica sufficiente per stabilire che la comunità nasce dai bisogni individuali, non viceversa. Per pensarla diversamente dovremmo individuare casi di comunità, umane o per lo meno animali, dove i conspecifici si amino e si ripettino in misura tale da rinunciare alla propria identità. Non disponendo di tali esempi e osservando invece un infinità di casi di interessi in conflitto, ci muoviamo spontaneamente nella direzione del s. c., che vede l’interesse individuale precedere l’interesse collettivo non solo cronologicamente, ma anche logicamente: la comunità nasce dal bisogno individuale con lo scopo  di agevolare la sua soddisfazione e quindi, per rimanere comunità,  non deve mai sottrarsi a questo compito originario.

Assumendo dunque la comunità come organizzazione nata per soddisfare e garantire alcuni interessi individuali, dovrò sulle stesse basi precisare il concetto di comunità in modo quantitativo, escludendo tutte quelle forme associative che riguardano scopi parziali, rilevanti o meno sul piano etico. Nel linguaggio corrente l’i. c. è spesso collegato al concetto generale e fondamentale di bene, sottointendendo quasi un’estensione all’interesse più comune possibile. Quest’ultimo non s’identifica ancora col concetto di bene, ma è quello che più gli si avvicina, se si escludono tutte le ipotesi  trascendentali  e soprannaturali . Dunque  la comunità di rango più elevato è quella incaricata di garantire il più condiviso degli interessi individuali possibili,  oppure di accontentare la massima (o la più equa) quantità di legittimi desideri individuali . L’esperienza restringe il novero di tali autorità agli Stati e alle grandi organizzazioni planetarie, subordinando le altre minori e i loro scopi. Non mi interessa approfondire in questa sede un discorso per altro importantissimo, quello dei rapporti tra collettività territorialmente maggiori (mondiali e statali) e minori (locali). Per addentrarmi in ognuna della quattro ipotesi poste all’inizio mi basta aver stabilito:

  • che esiste una comunità mondiale articolata in varie organizzazioni interne e a cui fanno capo altre organizzazioni esterne, che pone in testa ai suoi scopi il miglioramento della qualità della vita, cioè la soddisfazione dei bisogni;
  • che esiste da parte dei soggetti in quanto membri una prospettiva e un’aspettativa di aiuto effettivo da parte della comunità suddetta.

Per rendere più fluido il ragionamento ricorro all’ipotesi semplificatrice che la comunità mondiale sia l’unica ad avere come scopo l’interesse comune, proponendosi tutte le altre scopi più circoscritti o diversi; in altri termini: ipotizzo che su questo tema non esitano collettività in concorrenza diretta.

Un’altra utile semplificazione consiste nell’attribuzione della qualità di membro a ciascun essere umano. Restringere l’analisi, per esempio,   a una comunità nazionale e ai suoi residenti offrirebbe sbocchi meno suggestivi e porterebbe infinite complicazioni.

Ciò premesso,  posso tornare alle ipotesi fatte:

  • L’interesse comune coincide con la sommatori adegli interessi individuali

Questa prima ipotesi corrisponde a un interpretazione della storia che attribuisce l’origine delle comunità al semplice istinto di sopravvivenza. Gli altri due bisogni-impulsi fondamentali, che ho definito dignità e libertà, sarebbero nati e si evolverebbero, lungo la storia e mediante la tradizione, fino a modificare le caratteristiche antropologiche soggettive. La dignità  sarebbe più antica della libertà e, una volta formatasi come bisogno stabile, avrebbe mantenuto la sua struttura, pur  trasferendosi dall’ideale guerriero (distruzione) all’ideale tecnico (produzione). L’istinto di libertà si svilupperebbe coll’aumentare del tempo libero assieme all’istinto ludico-creativo. La pretesa di originalità nella creazione sarebbe tipicamente moderna e porrebbe l’accento sulla centralità dell’interesse individuale. La storia dunque non creerebbe alcuna nuova categoria, struttura di pensiero o volontà collettiva, limitandosi a variare e rendere più complessi i bisogni  individuali. Un’alternativa interna a questa interpretazione sarebbe di considerare i tre grandi istinti come innati e di ridurre il ruolo della cultura-tradizione a puro catalizzatore di facoltà di per sé idonee a svilupparsi. Entrambe le varianti comportano un perfetto equilibrio dei doveri del singolo, considerati fattori di scambio per ottenere dalle istituzioni l’attuazione dei diritti: do ut des.

  • L’iinteresse comune comprende la sommatoria, ma include altri fattori

Questa seconda ipotesi lascia intuire, pur senza ammetterlo chiaramente,  un rovesciamento del senso comune: la collettività non sarebbe strumento per i fini stabiliti dai suoi membri, ma viceversa.  Ogni ragionamento relativo a questa ipotesi fa infatti riferimento a un sistema di valori e di principi, stabilmente posto e generalmente accettato, che va oltre la soddisfazione dei bisogni individuali, ma ne riconosce l’utilità. L’esempio più immediato è quello di uno stato (o altra comunità) apparentemente democratico, ma sostanzialmente teocratico, in cui l’autentica effettiva finalità è di facilitare ai suoi membri la possibilità di una vita etica, in vista di prospettive trascendenti. La soddisfazione dei bisogni fondamentali é qui riconosciuta come necessaria, ma considerata strumentale all’ideale teistico.  Una tale concezione si rivela contraria al senso comune laddove l’imposizione di valori-ideali  precostituiti (da oligarchie o da maggioranze) va a sacrificio della libertà individuale, che per natura pretende di stabilirne e perseguirne di propri. Più in generale e prescindendo dall’esempio fatto, è difficile immaginare situazioni  in cui i fattori aggiuntivi alla sommatoria non comportino in realtà la compressione dei bisogni individuali, oltre che un appesantimento dei doveri a svantaggio dei diritti.

  • L’interesse comune è dato dalla sommatoria con l’esclusione di alcuni fattori

Questa terza interpretazione, che definirei prammatica, tende ad alleggerire e a semplificare le  funzioni degli organi comunitari e tiene conto delle enormi difficoltà operative in cui da sempre il settore  pubblico si dibatte. L’equilibrio dei diritti-doveri sarebbe automaticamente più garantito che nell’ipotesi , dato che dalla sommatoria verrebbero tendenzialmente esclusi :

  • i bisogni più sofisticati e meno diffusi;
  • quelli di più difficile realizzazione;
  • quelli di minore urgenza (più lontani dalla sopravvivenza e, in second’ordine, dalla dignità);
  • quelli la cui soddisfazione è possibile delegare ad altre comunità o ad agenti esterni alla comunità stessa.

La collettività che corrispondea questo tipo di mentalità sembra idonea a fornire, rispettto alle altre,  un numero più limitato, ma più efficiente di interventi e prestazioni, richiedendo  all’appartenente meno corrispettivi in termini di doveri.

  • L’interesse comune non è riconducibile alla sommatoria degli interessi individuali

Questa quarta  concezione dell’interesse comune:

  1. Non riconosce affatto gli interessi individuali
  2. Nnon li riconosce come scopo principale della collettività
  3. Non ammette la possibilità della loro sommatoria.

Le tre varianti si distinguono nettamente e portano a conseguenze  assai diverse.

Nel caso A i fini della collettività, da chiunque posti,  considerano il soggetto individuale come mezzo della loro realizzazione, sovvertendo il noto principio kantiano; è il caso evidente dei regimi illiberali, in cui la dignità non esiste e la stessa sopravvivenza individuale è messa continuamente in pericolo.

Nel caso B i bisogni-diritti fondamentali non vengono messi in discussione come tali, ma subordinati a principi etici superiori. Tipico esempio è la collettività  (per lo più ideale) che, guardando  ad altre collettività,  tende a incanalare le priorità di attuazione secondo i fini prevalenti di un contesto più generale o globale. Con questa mentalità l’interesse individuale incontra limiti ulteriori  (oltre a quelli che gli sono propri) niente affatto prevedibili. Dato il continuo mutare della sensibilità a livello mondiale, la tendenza di queste comunità si orienta verso un’utopia anarcoide, che si pone solo obiettivi negativi.

L’orientamento C ammette l’importanza degli interessi individuali, ma ritiene inapplicabile ad essi il concetto di sommatoria, giudicando, senza fondamento, che tale applicazione sarebbe contraria ai principi di uguaglianza e di giustizia.

Tale convizione è a mio avviso frutto di un pregiudizio, che si supera definendo il concetto di  sommatoria legittima degli interessi individuali come l’ammontare ottimo di tutti i bisogni legati alla sopravvivenza) di tutte le ambizioni (legate alla dignità) e di tutte le aspirazioni (legate alla libertà) teoricamente realizzabili dalla comunità in presenza di una data disponiblità di risorse. Dove per ottimo s’intende quell’ammontare di richieste (e di relative soddisfazioni) che rende massima la felicità individuale media,  intesa come appagamento delle richieste di sussistenza, dignità, libertà. Non si allude qui alla media artimetica o alla norma statistica, ma si richiama un concetto dinamico, sempre da rielaborare, che,  partendo dalle grandezze matematiche citate, le ponderi secondo precise priorità di urgenza: prima la sussistenza, poi la dignità, infine la libertà.

Il suddetto ammontare ottimo si distingue dall’ammontare massimo (sommatoria assoluta) proprio perché, tenendo conto dei  principi di uguaglianza e di giustizia, limita o esclude la parte o il tipo di interessi individuali che risulta incompatibile con la possibilità di felicità individuale estesa a tutti i membri della comunità .

La mentalità C, concentrando il suo interesse quasi esclusivamente sulle limitazioni, e ritenendosi in grado di stabilire con ragionevole certezza la nozione di interesse individuale legittimo, lascia intendere che l’attività di ricerca e perseguimento dell’interesse comune debba avvenire essenzialmente o unicamente in modo limitativo del privato. I comportamenti che derivano da tale mentalità sono i più solleciti sul tema dell’esaurimento delle risorse della comunità, ma, forse proprio in seguito al rifiuto del concetto di sommatoria degli interessi, guardano con diffidenza allo sviluppo economico .

Avendo tracciato per sommi capi le possibili nozioni di interesse comune accettabili (dal senso comune), non mi preme di eleggere quella ad esso più vicina, perché tale modo di procedere sarebbe paradossalmente contrario al modo del s. c. stesso: esso infatti non indaga circa le proprie possibilità e limiti, ma cerca di allargare le proprie conoscenze mediante un uso spontaneo del ragionamento. Cercherò invece di stabilire quale sia la nozione migliore, cioè quella teoricamente più vicina al conseguimento della felicità individuale. Nel senso restrittivo che gli ho dato inizialmente, e anche nell’uso corrente, il concetto di felicità rimanda alla soddisfazione armonica dei bisogni possiblili e al sentimento che ne deriva il quale, data la sua natura soggettiva, non può sicuramente considerarsi colllettivo. Per realizzare tale soddisfazione gli organi della comunità dispongono di quattro alternative teoriche:

  • .Comprimere i bisogni.
  • .Mantenere invariati i bisogni e possibilmente anche le risorse disponibili.
  • A mentare le risorse pur mantenendo invariati i bisogni.
  • .Allargare la gamma dei bisogni , cercando di provvedere quanto prima alla loro soddisfazione.

Circa la prima alternativa, va ammesso che una vita frugale, correlata a pochi bisogni, non sembra affatto incompatibile con la nozione corrente di felicità. Se però la compressione o l’impoverimento dei bisogni viene deciso dalla collettività, sia pure attraverso organi democraticamente eletti, si evidenzia una situazione sicuramente peggiore rispetto a una di fatto identica, ma frutto della scelta del singolo. L’esperienza insegna che una frugalità spontanea è più felice di una frugalità obbligata, se non altro perché nel primo caso il singolo vede impregiudicato  (e quindi soddisfatto) il proprio desiderio di  libertà, mentre nel secondo si ha un’evidente frustrazione. Devo dedurne che l’ alternativa considerata  non si presenta come la migliore.

Circa la seconda alternativa, dobbiamo porre tre ipotesi ulteriori:

  • Popolazione crescente.

La comunità deve aumentare le risorse (produzione di beni e servizi) per mantenere il livello attuale di felicità, considerato come ottimale.

  • Popolazione costante

In tale caso, per altro assai poco ricorrente, non è realistico concepire istituzioni o governi, che, non cerchino, se non di aumentare la produzione, almeno di migliorare la qualità o efficienza dei servizi, ricadendo in tal modo nel caso .

  • Popolazione in calo

A una diminuzione dei bisogni fa seguito una diminuzione della produzione e il presentarsi di svariate incognite dovute al cambiamento delle fasce d’età nella popolazione attiva.

I tre sottocasi considerati si riducono quindi a due e nessuno dei due sembra attrarre sotto il profilo della massima felicità, dato che considerano uno status quo come ideale. Tale convinzione, che si manifesta in un atteggiamento assolutamente conservatore, urta infatti contro il bisogno di libertà-creatività, che per il suo dinamismo appare correlato al cambiamento.

Circa la terza alternativa, essa non appare in contrasto col concetto di massima felicità, salvo il caso limite della piena soddisfazione dei bisogni, che ricadrebbe nel  A. Se in questa fattispecie la difesa dello status quo appare più giustificata che negli altri casi,  rimane però  la limitazione del sentimento di libertà-creatività.

La quarta alternativa esprime pienamente il  senso greco-occidentale del divenire, per il quale la felicità  si può manifestare semplicemente come tendenza.  Infatti, per una mentalità che considera gli enti come provenienti dal nulla e destinati ad annientarsi, un concetto teorico di perfetta felicità terrrena (felicità stabile) appare contraddittorio in sé e incompatibile coll’evidenza prima (il divenire). I principali rimedi salvifici all’angoscia che una tale concezione porta con sé chiamano  in causa o mondi ultraterreni (Aldilà) o mondi utopistici ( Mondo Nuovo) e pertanto non appaiono idonei a ispirare una concreta politica comunitaria. D’altra parte il senso comune può accettare il postulato che una vita ricca di possibilità sia più felice di una più povera, ossia che l’accrescimento di possibilità sia sempre positivo, purchè si pongano da parte degli organi comunitari vincoli e limitazioni tali da evitare che le possibilità offerte divengano imposizioni. Più precisamente, se le istituzioni  vogliono, pur rimanendo nell’ambito dell’alternativa quattro, mutarne la direzione,  abbandonando lo sfrenato consumismo in favore di una più efficace politica del benessere, non hanno altra strada che diffondere una diversa cultura del bisogno.  L’enunciato della quarta altenativa andrebbe in tale direzione così modificato:

a favorire l’allargamento dei bisogni solo nella misura in cui si prevede possibile e proficua la loro soddisfazione

Avendo individuato la strategia ideale per il senso comune, si tratta ora di vedere quale nozione di interesse comune, tra quelle sopra sviluppate, sia la più idonea e compatibile, operazione che viene facilitata dalle considerazioni già svolte. La definizione quattro (i.c. non riconducibile all’i. i.) non pare tenere in conto le aspettative di felicità terrena dei membri comunitari e viene dunque accantonata. Secondo la definizione due (l’i.c. include la sommatoria più altri fattori) non si  può sostenere in nessun modo che la parte non inclusa nella sommatoria e non rientrante nei fondamenti (sussistenza, dignità, libertà) consenta la possibilità di un allargamento dei bisogni. Infatti, ciò che non è alcun modo riconducibile ai fondamenti e che caratterizza in toto la  definizione quattro e solo in parte la definizione due, si può definire senz’altro fattore o valore ideale. Tale valore non può in nessun modo essere riconducibile alla felicità terrena, perché altrimenti avrebbe a che fare con i bisogni e quindi con l’interesse individuale illimitato (e quindi entrerebbe nella sommatoria col segno positivo); nè dovrebbe avere a che fare con la giustizia sociale o l’equità, perché avrebbe a che fare con l’interesse individuale legittimo (e quindi entrerebbe nella sommatoria col segno negativo). Ha invece a che fare con un fattore ultraterreno o di extraumano: si tratta in altre parole di un fondamento teologico o religioso. Diversamente, dovrebbe trattarsi di una positività sconosciuta al mondo terreno e inimmaginabile in quello ultraterreno, oppure di una forma di negatività inconcepibile per il senso comune: ad esempio, la comunità avrebbe come scopo di garantire la cattiva sussistenza, l’umiliazione della dignità e la frustrazione della libertà. Il  primo caso,  essendo estraneo al senso comune lo sarebbe anche alla mia indagine, che si occupa solo di ciò che già si conosce o che si può immaginare; il secondo caso rivelando  nella sua assurdità una sia pur negativa connessione coi bisogni, uscirebbe dalla situazione sub  , venendo a costituire il caso limite teorico della definizione . La quale definizione appare senz’altro in contrasto con la strategia ottimale  A, perché in nessun modo appare concepibile aumentare o consentire l’aumento dei bisogni con lo scopo effettivo di ridurli. Rimangono dunque in ballottaggio soltanto le definizioni  e , intese, in base a quanto si è detto, come opzione laica e religiosa. Una religione può avere interesse al soddisfacimento pieno dei fondamenti dell’uomo, come si è già accennato, perché ritiene tale soddisfazione strumentale alla perfetta attuazione della sua etica, ma non si vede in che modo possa giovare a tal fine l’allargamento dei bisogni, che sembra complicare la detta realizzazione. Infatti dagli allargamenti relativi alla sussistenza sembra (ripristinando categorie religiose) che tragga maggior beneficio la materialità, che non la spiritualità, e non si vede perché la religione dovrebbe auspicarli. Per quanto riguarda la libertà, è evidente che valori morali  (fondati o meno su concetti trascendenti) posti al di fuori dell’interesse individuale e di fatto imposti all’individuo dalla comunità, limitano di fatto il bisogno di libertà sotto l’aspetto creativo per quanto riguarda la ricerca-produzione di valori. Il massimo che la religione può fare è di tollerare proposte etiche concorrenti, ma se si spinge a incoraggiarle, aumentando in tal senso la libertà,  o ha deciso la propria fine, oppure ricade in un contesto laico-democratico. Infatti nessuna religione può arrivare ad asserire: la mia proposta di verità e di moralità è solo una delle tante. Ma anche se una religione siffatta fosse possibile e continuasse a definirsi tale, verrebbe comunque a produrre valori non più immutabili, in un contesto di bisogni individuali e non ci sarebbe alcuna necessità di definire il suo interesse comune al di fuori della sommatoria.

Per quanto riguarda l’esigenza di dignità, non si concepisce in seno alla religione minore, ma neppure maggiore interesse ad allargare la complessità e la portata del riconoscimento pubblico all’utilità del lavoro, perché nel secondo caso (enfatizzando il lavoro)  rischierebbe non poco di sostituire se stessa con una sorta di religione del lavoro, interamente ricadente sotto l’aspetto economico e laico.

Dopo queste considerazioni posso senza esitazione affermare che la nozione di i.c. più idonea alla strategia ideale è qualla che prende in considerazione la pura sommatoria degli interessi individuali legittimi. In tal modo il senso comune sembra aver conseguito un congruo risultato, giustificando la possibilità e anzi l’opportunità di convogliare tutte le discussioni sorte attorno a un concetto imprecisato e fumoso, troppo spesso utilizzato come attenuante o esimente, verso un terreno più preciso, concreto  e ricco di esempi, quale è quello degli interessi individuali.