Altruismo: difficoltà e regole pratiche

La diffidenza verso le forme spontanee e irriflessive di altruismo è quanto mai all’ordine del giorno e invoglia a sintonizzare ogni riflessione di fondo (tendenzialmente filosofica) ai momenti salienti della cronaca: ossia, l’urgenza crescente dei problemi di sopravvivenza fa sì che il concetto tradizionalmente negativo della doxa (opinione dell’opinione?) acquisti sempre più dignità e rilevanza, accanto a sempre maggiori responsabilità di chi lo chiama in causa.

Dunque, l’azione altruista non può attendersi un corrispettivo adeguato al valore all’azione stessa, perché diverrebbe una semplice azione economica (di scambio). Occorre inoltre che abbia almeno un destinatario diverso dallo stesso attore, perché per definizione deve produrre conseguenze che vanno oltre il soggetto stesso, altrimenti resterebbe una semplice azione buona o virtuosa, non però altruista. Un altro requisito indispensabile è che il destinatario sia consenziente, perché se non lo fosse lo stesso comportamento potrebbe, o dovrebbe, essere giudicato in modo non omogeneo dai vari soggetti coinvolti, terzi compresi. Il beneficato che non giudicasse altruista l’azione sottesa al supposto atto benefico, sarebbe ostile all’azione stessa o indifferente. Nel caso di indifferenza del soggetto passivo, si deve presumere che costui si sottragga dal giudizio sulla bontà dell’azione per ignoranza o per scelta. Nel primo caso la responsabilità del giudizio stesso passerebbe dal destinatario all’attore o ai terzi. Questi ultimi non possono essere, in base alla più comune esperienza, concordi sulla utilità-buona dell’azione, per cui legittimato a decidere su tale argomento sembrerebbe l’attore, il quale valuterebbe senz’altro l’azione come altruista, dato che, tralasciando l’ipotesi eccezionale di altruismo involontario, l’ha eseguita volontariamente a fin di bene. Ammettendo dunque che giudice dell’azione indifferente al destinatario sia l’attore, dobbiamo stabilire una regola generale e porre, o almeno presupporre, eventuali eccezioni.

Nello stabilire la regola generale, dobbiamo accettare in nome della coerenza il principio che la bontà dell’azione risiede tutta nell’intenzione e non tiene conto delle conseguenze. E dobbiamo su questo punto subire un primo richiamo del buon senso, che mai accetterebbe di mettere sullo stesso piano azioni buone con conseguenze buone e azioni buone con conseguenze cattive e quanto meno ci costringerebbe a distingere tra buon altruismo e cattivo altruismo. Ma anche nel caso di azioni con conseguenze irrilevanti (es. regalo di ghiaccio agli esquimesi) fatte con buona intenzione dobbiamo rilevare il difetto di intelligenza e distinguere tra altruismo intelligente e altruismo stupido. In tal modo, in entrambi i casi siamo costretti a sottrarre la responsabilità del giudizio all’attore, che essendo intenzionato all’altruismo in modo incondizionato (in conformità della regola posta) riterrà sempre di fare un’azione buona, intelligente e con conseguenze buone, anche quando il parere dell’interessato, la maggioranza dei terzi e il comune buon senso lo negheranno. D’altra parte anche la soluzione di attribuire il giudizio dell’intenzione al beneficiato violerebbe il pricipio regolatore, perché quest’ultimo non appare, proprio per la posizione in cui si trova, il miglior giudice delle intenzioni (é sicuramente peggior giudice dell’attore), così come sembra invece il miglior giudice delle conseguenze che lo riguardano. Quanto ai terzi, è provato per esperienza che si dividerebbero nel valutare l’intenzione dell’attore, col risultato di esprimere non un giudizio, ma una pluralità di giudizi non unificabili.

Una diversa regola generale potrebbe ignorare le intenzioni dell’attore e tenere conto soltanto delle conseguenze. A tale regola generale si oppone subito la considerazione, fondata sull’esperienza,  dell’eterogenesi dei fini, per la quale anche un’azione esperita con intento malvagio può produrre conseguenze positive. In effetti il linguaggio, interpretando il senso comune, pone la eterogenesi dei fini come paradossale rispetto a una normalità, che allinea buone intenzioni e buone conseguenze, per cui questa seconda possibile regola enunciata (giudizio delle conseguenze) non appare né in teoria, né in pratica, migliore della precedente.

Per stabilire una regola generale migliore, io dovrò allora escogitarla in modo che essa preveda, per distinguersi dal mero arbitrio, il minor numero di eccezioni possibile. Rispetto alle due precedenti, sembra offrire maggiori garanzie la regola restrittiva di considerare altruista solo un’azione buona nelle intenzioni e produttiva di conseguenze giudicate buone sia dal beneficato che dai terzi. Immaginando il concreto effettuarsi di tale fattispecie, non si vede come il soggetto passivo del beneficio possa esprimere il suo parere fondante sull’altruismo, se non attraverso una manifestazione implicita o esplicita di gratitudine. Infatti un atteggiamento indifferente del beneficato nel quale tale sentimento non comparisse né come espresso, né come sotteso, sarebbe necessariamente intepretato o come giudizio di inutilità o come giudizio di spettanza (il dono non deriva dalla tua bontà, ma da un mio diritto, quindi non è un dono). La gratitudine non necessariamente espressa, ma necessariamente presente nel giudizio di altruismo, fa sì che si crei a favore dell’attore un’apertura di credito cioè un’aspettativa di reciprocità. Infatti, se il beneficato agisce secondo norme morali, non può che ricambiare con una forma di bene, materiale o morale, un’azione da lui ritenuta buona, perché se, pur agendo sul piano dell’etica, non lo fa, significa che giudica buona non l’azione in sé, ma solo l’utilità pratica delle sue conseguenze. In altri termini, colui che non prova gratitudine non esprime alcun giudizio sull’azione dell’attore, oppure esprime un giudizio di assoluta incapacità di quest’ultimo a produrre consapevolemente il bene (perché lontano dalla vera religione o per altri motivi legati all’ignoranza). Se poi affermo che il destinatario dell’azione non agisce sul piano morale, ciò può significare che:

  • .non si pone il problema del bene e del male
  • ritiene di conoscere il bene, ma vuole agire in senso contrario ad esso
  • ritiene di conoscere il bene e vorrebbe ispirare ad esso le sue azioni, ma agisce in modo contrario alla sua stessa volontà
  • in generale ritiene bene ciò che per l’attore è male e viceversa
  • ritiene bene ciò che per l’agente è male, ma limitatamente alla sfera di interesse dell’azione da giudicare

Nel caso  il beneficato non appare idoneo a giudicare dell’azione, che non può quindi essere giudicata secondo la terza regola. Nel caso  non appare idoneo a giudicare, perché sarebbe chiamato a un giudizio morale, perseguendo obiettivi contrari alla morale. Nel caso  il soggetto passivo non è esente o immune dal sentimento di gratitudine, che però riesce a esprimere soltanto nella forma del rimorso (maltratto il mio benefattore e poi me ne pento). Il soggetto appare comunque idoneo a giudicare, perché la sua mentalità, contrariamente al suo agire, è conforme a quella dell’attore. Il caso  comporta per definizione l’astensione dal giudizio o il giudizio preliminare di condanna dell’operare dell’agente. Il caso  esclude per definizione la possibilità di giudicare del beneficato sul caso in esame. Il giudizio secondo la terza regola (parere unanime di tutti i soggetti interessati) comporta dunque, come essenzialmente costitutivo e non come incidentale al giudizio, il sentimento delle gratitudine, presente in ogni comportamento conforme e in un caso di comportamento difforme alla morale del soggetto passivo. Ma il sentimento della gratitudine, con il suo esplicito richiamo alla reciprocità, sembra inesorabilmente escludere la possibilità di altruismo proprio per quel nucleo più ristretto di azioni dove collima il giudizio positivo del soggetto attivo, di quello passivo e dei terzi in quanto interpreti del senso comune. Infatti non si vede come possa la gratitudine essere espressa da un versante e interpretata dall’altro se non come aspettativa-promessa di un comportamento sia pure trasversale, sia pure improbabile, sia pure non preannunciato, favorevole alla sfera di interesse (materiale, morale) di colui che arreca il beneficio. Dunque l’azione cosiddetta altruista, o meglio, in base a quel che si è detto, sicuramente altruista, non può non rientrare nella sfera economica, venendo in tal modo il proprio significato.

Ritornando poi sul soggetto passivo non consenziente, tale mancanza di consenso dovrebbe togliere all’azione qualunque pretesa di altruismo. Se nei casi più facili da giudicare da parte dei terzi viene in soccorso quella particolare forma di buon senso che stimola il senso dell’umorismo a produrre esempi paradossali, esistono casi in cui l’azione benfica imposta con la forza e contro la volontà si fonda sull’ignoranza del proprio bene, che si presume nel beneficato, la quale, ancor più se riferita ad aspetti tecnici complessi, renderebbe non solo lecita, ma anche doverosa, ogni forma coatta di inabilitazione o interdizione proclamata in nome dell’altruismo. Da qui nasce il problema dell’estensione o meno del concetto in esame e della sua presunzione (in senso non solo giuridico) dalle istituzioni riconsciute (finalizzate per definizione a realizzare il bene comune) alle forme non organizzate e individualmente velleitarie. Su questo problema ha luogo una netta demarcazione tra due distinti tipi di mentalità, destinati a entrare in conflitto.